“Lui” romanzo soft-porno di Catherine Spaak

   05/12/2007
  
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Due giorni fa, alla libreria Feltrinelli di Roma, Catherine Spaak, conduttrice per 15 anni del salotto di Harem con continue puntate su sesso ed eros, ha presentato il suo ultimo libro, un romanzo erotico dal titolo “Lui”, edito da Mondadori. Catherine torna a scrivere, ma in un’insolita veste di autrice molto audace, che un po’ contraddice la figura di signora per bene a cui ci aveva abituato in tutti questi anni.

Ecco un estratto del romanzo porno “Lui”:

…. Mi regalò un completo di biancheria intima. Voleva che mi “vestissi” per fare l’amore. Gli piacevano gli stivali, i tacchi a spillo, i tanga, i bustini. Non possedevo nulla di tutto ciò. Mi divertii a sorprenderlo, almeno così credevo.
Non avevo mai giocato all’adescamento; e scoprii un mondo insospettato e le calze autoreggenti col pizzo nero.
Vivevo queste novità come un gioco innocente, senza turbamento. Ero troppo presa dall’ansia di piacergli per accorgermi che c’era qualcosa di vagamente inquietante nelle sue richieste.

Poi mi chiese di inventare delle storie erotiche per lui; di volta in volta dovevo trasformarmi in massaggiatrice, giapponesina, infermiera, cameriera, prostituta o misteriosa vicina di casa. Me lo chiese timidamente, affrettandosi ad aggiungere che lo avrei fatto solo se lo desideravo anch’io. Era sornione, ammiccante.

Provai le varie divise inventando personaggi del tutto improbabili per me, ma questo gioco acuì la mia immaginazione e creai il personaggio di Nanda, la prostituta romana un po’ sfigata, sognatrice, con il cuore d’oro che lo conquistò immediatamente. Minigonna con frange svolazzanti, calze a rete, stivali a mezza coscia, strizzata in un bustino scollatissimo, la parrucca rossa con la frangetta, ero Nanda che l’aspettava sul letto disponibile e ironica.
Voleva che Nanda gli parlasse con l’accento di Trastevere dei suoi sogni di lusso e immaginarie frequentazioni di VIP. Lui fingeva di essere un cliente importante e molto facoltoso, ma che non pagava mai, timido e un po’ impacciato delegava a lei tutte le iniziative.

Bisognava spogliarlo, baciarlo, stuzzicarlo, provocarlo. Fui anche spesso un’infermiera malandrina, la cameriera di sua moglie senza mutande sotto la divisa, la giapponesina-geisha tutta moine e risatine, la vicina di casa perversa che viene a prendere un tè… Ma Nanda rimase la preferita.

Ogni volta con l’arietta furba mi diceva: «Ti vai a vestire?». Le preparazioni erano sempre laboriose; candele accese nella penombra, musica soft, scelta della biancheria e accessori, poi la recita. Non dovevo saltare nessun passaggio; il rituale era lento, ripetitivo e mi toccava dedicarmi interamente al suo piacere. Dopo, lo lavavo con spugne tiepide, senza bagnare le lenzuola, mentre già dormiva.

Passò rapidamente il divertimento che si era trasformato in lavoro: il mio piacere non era mai incluso nei rituali. Cominciai a sentirmi triste e a interrogarmi sul senso reale di queste sue richieste.
Non ascoltai la mia piccola voce interiore che, per la prima volta, cercò di farsi udire. Cosa cercava di dirmi quella voce ?

Volevo convincermi che quei giochi fossero l’approfondimento di una nostra complicità, una connivenza che dovevo imparare a gestire con leggerezza e ironia. Ma questo ragionamento non corrispondeva a ciò che provavo realmente, le sue richieste suscitavano in me sensazioni di disagio e malessere che cacciavo via con violenza, impedendomi di riflettere ma soprattutto di ascoltare il mio corpo e le mie emozioni.
Oggi comprendo che erano i primi segnali d’allarme ai quali avrei dovuto prestare un’estrema attenzione.

In realtà, con queste recite, lui ricreava il suo mondo segreto e attraverso questo suo stratagemma si permetteva di usarmi per le sue proiezioni contorte senza suscitare sospetti. Non faceva più l’amore con me ma con i suoi fantasmi, non ero più la donna che diceva di amare che stringeva a sé ma, via via, le sue risvegliate fantasticherie; al posto mio poteva esserci chiunque. Era scomparsa la tenerezza, la liquidità dei suoi sguardi: ero sempre, di volta in volta, un’altra, una sconosciuta. Non avevo ancora compreso il suo gioco, l’insinuarsi, con il mio consenso, la mia partecipazione, di quel veleno che mi portò rapidamente a diffidare di me, a prendere le distanze dalla realtà fino a negarne l’evidenza. Doveva divertirsi un mondo a trasformare la “timida pastorella” in baldracca. (…)

Nella sua vita il sesso era tutto, l’unico modo – seppur disturbato – di rapportarsi agli altri. Solo di quello era sicuro, solo su questo poteva contare: era sempre stato così nella sua vita. La strada più facile. «Ti darò tanto cazzo» mi ripeteva, come fosse il dono più importante che potesse farmi, quello che lo avrebbe reso grande. Evidentemente aveva sempre funzionato.

Non poteva sospettare che c’era qualcosa di molto più potente del sesso, almeno per me: l’amore e l’anima. Era convinto di possedere fra le gambe un pezzo di carne davvero unico e spettacolare. Una volta, gli raccontai di aver avuto un flirt con un uomo talmente “dotato” da non poter sopportare la penetrazione. Rimase esterrefatto. Si rifiutò di credermi, gli era inconcepibile l’idea. Mi resi conto di aver scoperto il suo punto più debole, di aver fatto traballare il pilastro della sua esistenza.

Non comprese ciò che avevo appena verificato. Voleva comunicare, condividere la fascinazione che provava per il suo sesso in erezione che letteralmente lo ipnotizzava. Non chiedeva solo venerazione, voleva risvegliare la parte più primitiva dell’altro. Rendeva perverso ciò che era naturale comportandosi da vizioso. Se lo toccava in continuazione attraverso la tasca interna dei pantaloni, lo tirava fuori appena un po’ rigonfio (l’estate non portava mutande) per mostrarmelo, lo accarezzava, lo vezzeggiava. Si masturbava per il piacere di vederlo ingrossarsi e poi ammirarlo.

Lasciava la cintura della sua vestaglia lenta. in modo che si scostasse e che lo si potesse intravedere. Voleva che glielo toccassi mentre guidava o appena sveglio. Immaginava di raggiungermi nella toilette di un ristorante, farselo prendere in bocca in fretta temendo o desiderando di essere scoperto, di avermi carponi sotto la sua scrivania in ufficio e di farselo trastullare mentre, impassibile, ascoltava i suoi clienti. Fantasticava, mentre mi occupavo del suo piacere, ad alta voce, di uomini in fila dietro di me pronti a possedermi brutalmente. Mi raccontava ciò che faceva con altre donne quando ero via.

Era sempre la stessa storia: nella nostra stanza entrava una ragazza, le sbottonava la camicetta, le infilava le mani fra le cosce, lei glielo prendeva in bocca e poi… Mi descriveva, col pretesto della complicità, quello che realmente faceva ma io non capivo, come avrei potuto? Una mente malata, la sua, che sfociava nella depravazione. L’abuso. Era la mia ingenuità che eccitava la sua perversione, il suo bisogno di insudiciare, esaltare le sue parti più basse e compiacersene…..

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